La scelta di non andare a votare non riguarda solo la persona che la compie, ma ha delle conseguenze politiche dirette. Se diventa una scelta diffusa finisce per colpire la legittimazione delle istituzioni democratiche e dei partiti politici e favorire una loro evoluzione in direzione non sempre liberale. Gli astenuti inoltre non si distribuiscono in modo uniforme lungo tutto lo spettro politico: spesso le elezioni le vince chi riesce a mobilitare il maggior numero dei propri elettori potenziali, non tanto chi riesce a strappare più elettori agli avversari.
L’astensionismo è un fenomeno complesso. Ogni elezione ha le sue specificità, dettate da una molteplicità di fattori: per esempio, la composizione demografica del bacino elettorale, il contesto socioeconomico e la cultura democratica della popolazione chiamata al voto. Per questo molta letteratura scientifica si sforza di comprendere a fondo le motivazioni dell’astensionismo, ma non esiste una teoria generale che ne spieghi le cause.
Secondo Maurizio Cerruto, le ragioni alla base dell’astensionismo sono sfaccettate. “Da un lato, si parla di astensionismo da apatia, cioè la distanza tra l’elettore e l’offerta politica. Questo tipo di astensionismo ha le sue radici nella posizione di marginalità che la politica occupa nell’orizzonte psicologico di molti elettori delle moderne democrazie di massa”. Dall’altro lato si parla invece di “astensionismo di protesta, come espressione attiva di una insoddisfazione dell’elettore, che esprime una dimostrazione di sfiducia e in molti casi di aperta ostilità nei confronti della classe politica”. Secondo Cerruto, le ricerche empiriche mostrano che nell’elettorato astensionista italiano l’apatia prevale sulla protesta.
Anche secondo il prof. G.Pasquino “l’astensionismo è un modo di votare. Sono quelli che mandano a dire ai politici: non ci piacete, nessuno di voi ci convince. Sono quelli che pensano che, votando, comunque legittimerebbero questa politica. Ci sono poi quelli che sono sfiduciati, si sentono tagliati fuori da tutto, anziani, isolati, periferici, nulla più suscita il loro interesse.”
Alla base dell’astensionismo ci sono insomma molte ragioni, e ha quindi poco senso parlare di un “partito del non voto”. Il quadro si fa ancora più sfaccettato se si va a guardare quali sono le fasce della popolazione che più tendono ad astenersi. Secondo un rilevamento del 2016 dell’istituto di sondaggi Swg intitolato “Il popolo dell’astensione”, in Italia l’astensionismo è particolarmente diffuso tra gli elettori tra i 18 e i 44 anni, spesso indecisi o senza una precisa collocazione politica. Molti hanno un titolo di studio superiore al diploma
Di certo gli italiani hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni politiche. Ogni anno l’Istat rileva dati su questo aspetto, all’interno del rapporto “Il benessere equo e sostenibile”.Come confermano anche le ultime stime, la fiducia degli italiani verso il Parlamento, i partiti e il sistema giudiziario continua a calare dal 2010 e questo si traduce in un senso di disaffezione diffuso, che ha un impatto sull’affluenza alle urne. Tuttavia il problema italiano si inserisce in un quadro europeo più generale. Secondo l’Eurobarometro, il servizio della Commissione europea che misura e analizza le tendenze dell’opinione pubblica, la fiducia dei cittadini verso le istituzioni è bassa un po’ in tutta Europa: da circa dieci anni meno della metà della popolazione europea si fida delle istituzioni politiche del proprio stato.
Allo stato attuale, scrive il WEF, per colmare le differenze di genere in molte aree del globo occorrerebbero 108 anni, ma se si considerano le disuguaglianze sui posti di lavoro, gli anni necessari a ottenere la parità diventano 202.
In 18 legislature della nostra Repubblica nessuna donna è stata eletta Presidente della Repubblica, nessuna donna Presidente del Consiglio dei Ministri, una sola donna è stata eletta Presidente del Senato ( Maria Elisabetta Alberti Casellati, in carica dal 2018), tre donne hanno ricoperto la carica di Presidente della Camera dei Deputati :
– Nilde Iotti per tre legislature tra il 1979 al 1992;
– Irene Pivetti dal 1994 al 1996;
– Laura Boldrini dal 2013 al 2018.
Nel 1948 la costituzione repubblicana estese alla maggioranza degli italiani, le donne, fino ad allora escluse, il diritto di accedere agli incarichi pubblici. Sul piano formale la parità era sancita. Nella sostanza bisognerà attendere diversi decenni.
Nei primi trent’anni della Repubblica i consigli dei ministri furono composti interamente da uomini. Nel 1976 il presidente del consiglio Andreotti, nel suo terzo governo, nominò la prima ministra: Tina Anselmi, destinata al ministero del lavoro e della previdenza sociale.
Il tabù di una donna nella stanza dei bottoni era stato scalfito, ma non ancora infranto. Nel 1979 il nuovo premier Francesco Cossiga chiuse, assieme alla stagione della solidarietà nazionale, l’esperienza delle donne al governo. Seguirono l’esempio i successori Forlani e Spadolini.
Tra il 1982 e il 1987, in quattro governi guidati alternativamente da Fanfani e Craxi, il ministero della pubblica istruzione venne diretto ininterrottamente da una donna, Franca Falcucci.
Con il governo De Mita (1988) per la prima volta furono due le ministre: Rosa Russo Iervolino (agli affari sociali) e Vincenza Bono Parrino (ai beni culturali).
La prima Repubblica si chiude con un primo record di presenza femminile (10,7% di donne nel governo Ciampi del 1993), ma si torna subito indietro e la seconda si apre con tutt’altro segno. Nei governi Berlusconi I e Dini (1994-’96) la quota scende attorno al 5%.
Nei successivi esecutivi di centrosinistra la percentuale raggiunge un picco del 22% nel governo D’Alema I, che è anche il primo esecutivo dove una donna, Rosa Russo Iervolino, è ministra dell’Interno. Tra il 2000 e il 2006 la presenza femminile al governo si contrae nettamente, prima con l’Amato II (15%) e poi Berlusconi II e III (8%).
Con il secondo governo di Prodi (2006) e il quarto di Berlusconi (2008) la quota di ministre risale fino ad avvicinarsi quarto del totale. L’avvento dei tecnici, nel 2011, abbassa nuovamente la percentuale, ma per la prima volta una donna diventa ministra della giustizia (Paola Severino).
Nel 2013 è stato eletto il Parlamento con più donne della storia repubblicana, e anche la presenza di donne negli esecutivi ha registrato un’impennata. Nel breve esecutivo di Enrico Letta (2013) le donne ricoprono quasi un terzo dei ministeri. Con quello di Renzi, all’atto dell’insediamento, per la prima volta la metà dei ministri è donna.
Nell’attuale legislatura, la XVIII, si registra il record di donne in entrambi i rami: alla Camera la presenza femminile è del 35,71%, al Senato del 34,48%. Il solo Movimento 5 stelle ha, nelle due Camere, oltre il 40% degli eletti donne, eppure il governo Conte, con 64/membri, ha conquistato il record di membri del Governo, ma sono davvero poche le donne, solo 11 e solo 5 a capo di un dicastero ( Buongiorno, Grillo, Lezzi, Stefani e Trenta) e dunque,relativamente alla presenza femminile, un pessimo risultato, peggio dei governi Berlusconi.
Questa la situazione poco soddisfacente e se poi guardiamo al governo delle Regioni, la situazione è decisamente peggiore, nemmeno una donna Presidente al momento, a seguito delle dimissioni dell’unica Governatrice dell’Umbria.
Inoltre su 7914 Comuni italiani, 1131 sono amministrati da donne, pari ad una percentuale del 14,29% , un po’ poco !
QUOTE DI GENERE
Una breve parentesi va dedicata alle leggi elettorali
L’insufficiente presenza delle donne nei ruoli apicali dell’economia e nei luoghi delle decisioni politiche è un problema per una società democratica, che vuole rappresentare tutta la comunità e non solo una parte.
Se la società è composta più o meno in ugual misura da uomini e donne (secondo l’ultimo dato Istat, le donne sono il 51,5% dei residenti in Italia), di conseguenza ci si aspetterebbe che le istituzioni rappresentative, che sono – o dovrebbero essere – lo specchio di quella società, fossero composte in misura più o meno analoga da uomini e donne.
Nel campo della politica, il problema non è tanto quello della capacità, del merito, della competenza, ma più semplicemente quello della rappresentanza: un’insufficiente rappresentanza di donne all’interno delle istituzioni rappresentative impoverisce il confronto dialettico che all’interno di quelle istituzioni deve svolgersi, limita lo spettro di risposte che quelle istituzioni sono tenute a fornire alle istanze che provengono dal Paese.
Quindi si può affermare che non è solo una questione di numeri, ma di qualità della democrazia, in grado di dare risposte alle domande che emergono dalla società.
Nel campo della politica più che negli altri, può essere sostenuta l’idea che la parità è sinonimo di qualità.
Fino dalla metà degli anni ‘90 il legislatore regionale e nazionale ha posto mano alle leggi regionali e sul modello dei Paesi del Nord Europa ha introdotto le cosiddette quote di genere nella composizione delle liste elettorali, successivamente la preferenza di genere ( qualora siano previste preferenze multiple ) e la composizione mista delle Giunte Comunali, Regionali e degli esecutivi in genere.
Utile ricordare alcune sentenze al riguardo.
– Sentenza della Corte Costituzionale n. 422 del 1995 che spazza via tutte le disposizioni normative che avevano introdotto le quote per le elezioni nazionali, regionali e locali.
La sentenza riguarda il comune di Baranello, nel Molise, per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale in quanto, tra i trentasei candidati al consiglio comunale complessivamente presentatisi nelle tre liste in competizione, era presente una sola donna, in violazione dell’art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993 n. 81, secondo cui “Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi”.
La sentenza arriva ad affermare che l’introduzione delle quote di genere nelle liste elettorali, non si configurano “come un’azione positiva dato che esse non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.” La Consulta accoglie il ricorso e stabilisce l’incostituzionalità della legge elettorale comunale, rendendo incostituzionali tutte le leggi nazionali e regionali.
La sentenza della Consulta riesce ad affermare che la sola candidatura è il raggiungimento dell’obiettivo, quando in realtà l’obiettivo è l’elezione!
– Sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 2003 riguardante la legge elettorale della Regione Valle d’Aosta, che prevede solamente “che nelle ( liste elettorali ) siano presenti candidati di entrambi i sessi”. La Corte respinge il ricorso del Governo contro la legge.
Utile riportare integralmente le motivazioni, che sono davvero interessanti e chiariscono bene il concetto di superamento delle disuguaglianze:
“Questa Corte ha riconosciuto che la finalità di conseguire una “parità effettiva” (sentenza n. 422 del 1995) fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale. Si tratta, invero, di una finalità – che trova larghi riconoscimenti e realizzazioni in molti ordinamenti democratici, e anche negli indirizzi espressi dagli organi dell’Unione europea – collegata alla constatazione, storicamente incontrovertibile, di uno squilibrio di fatto tuttora esistente nella presenza dei due sessi nelle assemblee rappresentative, a sfavore delle donne. Squilibrio riconducibile sia al permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle donne erano negati o limitati i diritti politici, sia al permanere, tuttora, di ben noti ostacoli di ordine economico, sociale e di costume suscettibili di impedirne una effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese.
Le disposizioni impugnate della legge elettorale della Valle d’Aosta operano su questo terreno, introducendo un vincolo legale rispetto alle scelte di chi forma e presenta le liste. Quello che, insomma, già si auspicava potesse avvenire attraverso scelte statutarie o regolamentari dei partiti (i quali però, finora, in genere non hanno mostrato grande propensione a tradurle spontaneamente in atto con regole di autodisciplina previste ed effettivamente seguite) è qui perseguito come effetto di un vincolo di legge. Un vincolo che si giustifica pienamente alla luce della finalità promozionale oggi espressamente prevista dalla norma statutaria.
-Deve peraltro osservarsi che, nella specie, il vincolo imposto, per la sua portata oggettiva, non appare nemmeno tale da incidere propriamente, in modo significativo, sulla realizzazione dell’obiettivo di un riequilibrio nella composizione per sesso della rappresentanza. Infatti esso si esaurisce nell’impedire che, nel momento in cui si esplicano le libere scelte di ciascuno dei partiti e dei gruppi in vista della formazione delle liste, si attui una discriminazione sfavorevole ad uno dei due sessi, attraverso la totale esclusione di candidati ad esso appartenenti. Le “condizioni di parità” fra i sessi, che la norma costituzionale richiede di promuovere, sono qui imposte nella misura minima di una non discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei cittadini di uno dei due sessi.
-In definitiva – ribadito che il vincolo resta limitato al momento della formazione delle liste, e non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva – la misura disposta può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell’intento di realizzare la finalità promozionale espressamente sancita dallo statuto speciale in vista dell’obiettivo di equilibrio della rappresentanza.”
– Sentenza della Corte Costituzionale n. 4 del 2010 relativa all’introduzione nella legge elettorale della Regione Campania, della doppia preferenza di genere.
La legge elettorale dispone: «L’elettore può esprimere, nelle apposite righe della scheda, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome ed il cognome dei due candidati compresi nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza».
La Consulta nel respingere il ricorso, così motiva:
Si deve innanzitutto notare che l’espressione della doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato dell’uno o dell’altro sesso. Solo se decide di avvalersi della possibilità di esprimere una seconda preferenza, la scelta dovrà cadere su un candidato della stessa lista, ma di sesso diverso da quello del candidato oggetto della prima preferenza. Nel caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, l’invalidità colpisce soltanto la seconda preferenza, ferma restando pertanto la prima scelta dell’elettore.
Da quanto esposto si traggono due conseguenze, in ordine ai limiti posti dalla giurisprudenza di questa Corte all’introduzione di strumenti normativi specifici per realizzare il riequilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica.
La prima è che la regola censurata non è in alcun modo idonea a prefigurare un risultato elettorale o ad alterare artificiosamente la composizione della rappresentanza consiliare. È agevole difatti osservare che, in applicazione della norma censurata, sarebbe astrattamente possibile, in seguito alle scelte degli elettori, una composizione del Consiglio regionale maggiormente equilibrata rispetto al passato, sotto il profilo della presenza di donne e uomini al suo interno, ma anche il permanere del vecchio squilibrio, ove gli elettori si limitassero ad esprimere una sola preferenza prevalentemente in favore di candidati di sesso maschile o, al contrario, l’insorgere di un nuovo squilibrio, qualora gli elettori esprimessero in maggioranza una sola preferenza, riservando la loro scelta a candidati di sesso femminile. La prospettazione di queste eventualità – tutte consentite in astratto dalla normativa censurata – dimostra che la nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si tratta quindi di una misura promozionale, ma non coattiva.
Sotto il profilo della libertà di voto, tutelata dall’art. 48 Cost., si deve osservare che l’elettore, quanto all’espressione delle preferenze e, più in generale, alle modalità di votazione, incontra i limiti stabiliti dalle leggi vigenti, che non possono mai comprimere o condizionare nel merito le sue scelte, ma possono fissare criteri con i quali queste devono essere effettuate. Non è certamente lesivo della libertà degli elettori che le leggi, di volta in volta, stabiliscano il numero delle preferenze esprimibili, in coerenza con indirizzi di politica istituzionale che possono variare nello spazio e nel tempo. Parimenti non può essere considerata lesiva della stessa libertà la condizione di genere cui l’elettore campano viene assoggettato, nell’ipotesi che decida di avvalersi della facoltà di esprimere una seconda preferenza. Si tratta di una facoltà aggiuntiva, che allarga lo spettro delle possibili scelte elettorali – limitato ad una preferenza in quasi tutte le leggi elettorali regionali – introducendo, solo in questo ristretto ambito, una norma riequilibratrice volta ad ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva. Tale risultato non sarebbe, in ogni caso, effetto della legge, ma delle libere scelte degli elettori, cui si attribuisce uno specifico strumento utilizzabile a loro discrezione.
I diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo rimangono inalterati. Il primo perché l’elettore può decidere di non avvalersi di questa ulteriore possibilità, che gli viene data in aggiunta al regime ormai generalizzato della preferenza unica, e scegliere indifferentemente un candidato di genere maschile o femminile. Il secondo perché la regola della differenza di genere per la seconda preferenza non offre possibilità maggiori ai candidati dell’uno o dell’altro sesso di essere eletti, posto il reciproco e paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di espressione di preferenza duplice. Non vi sono, in base alla norma censurata, candidati più favoriti o più svantaggiati rispetto ad altri, ma solo una eguaglianza di opportunità particolarmente rafforzata da una norma che promuove il riequilibrio di genere nella rappresentanza consiliare.”
– Sentenza del Consiglio di Stato del 2015, relativamente al ricorso promosso dalla Consigliera di Parità della Regione Calabria, contro il Comune di Cosenza, che nomina la Giunta Comunale senza la presenza femminile.
Così si esprime il Consiglio di Stato, Sezione Quinta :“E’ illegittimo, per violazione del principio delle pari opportunità, contenuto negli art 3 e 51 della Costituzione e 23 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché degli artt. 6, comma 3, e 46, comma 2, TUEL, nel testo risultante dalla legge n. 215/2012, il decreto di nomina degli assessori tutti di sesso maschile della Giunta municipale, che sia motivato con riferimento alla mancanza di soggetti di genere femminile disposti ad assumere le funzioni di Assessore comunale, a nulla rilevando che il principio di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, affermato dalla novella, non sia stato ancora formalmente recepito nello statuto comunale. L’attuazione del suddetto principio non può essere condizionata dall’omissione o ritardo del Consiglio comunale nel provvedere alla modifica dello statuto” ( Cons. St., sez V, 18 dicembre 2013, n. 6073). All’ indomani dell’entrata in vigore del citato art 1, comma 137, secondo il quale: “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi puo’ essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”, tutti gli atti adottati nella vigenza di quest’ultimo trovano nella citata norma un ineludibile parametro di legittimità, non essendo ragionevole una sua interpretazione che leghi la concreta vigenza della norma alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le nomine assessorili all’indomani delle elezioni. Una simile interpretazione consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione, nella misura in cui il rispetto della percentuale assicurato dai provvedimenti di nomina immediatamente successivi alle elezioni potrebbe essere posto nel nulla da successivi provvedimenti sindacali di revoca e nomina, atti a sovvertire la suddetta percentuale. Allo stesso tempo deve rilevarsi che non risulta alcuna istruttoria tesa a verificare l’impossibilità de rispetto della suddetta percentuale, né dall’atto sindacale si evince una qualche ragione per la quale il Sindaco ha ritenuto di potersi discostare dal suddetto parametro normativo.”
Dunque le quote di genere nelle liste elettorali sono legittime e assolutamente rispettose dei principi costituzionali, la doppia preferenza di genere è anche legittima e la composizione degli esecutivi rispettosa di entrambi i generi non può essere derogata, eppure le donne in posizioni importanti e determinanti per
dettare le priorità politiche sono ancora troppo poche.
La politica è decisamente maschile e le donne di potere non si discostano dal modello maschile, anzi in genere le donne si alleano al “maschio alfa” e non hanno fino ad oggi promosso efficacemente le altre donne, se non loro stesse. Stare all’ombra degli uomini conviene e non si corrono rischi, ma non si cambia lo status d’inferiorità e marginalità delle donne in generale.
Va detto che quando una donna raggiunge posizioni di potere e si discosta dalla linea del “maschio alfa” ne paga le conseguenze, divenendo marginale e vedendosi bocciate le iniziative innovative.
Ripropongo la domanda : con chi dobbiamo allearci per riuscire a cambiare la nostra società, che è decisamente misogina o se si vuole discriminatoria nei confronti delle donne ?
Accettare lo status quo è pericoloso, perché non è affatto scongiurato il pericolo che le cose possano peggiorare ancora e dunque le donne debbono esserci ed essere determinanti nelle scelte politiche.